L’Ungheria entro tre mesi potrebbe far a meno dei fondi stanziati dall’Unione Europea. L’Europarlamento a Strasburgo ha approvato il report che bolla Budapest come “autocrazia elettorale”. Ai governi membri si richiedono sanzioni, mentre Salvini e Meloni si annunciano avversi al documento.
L’Ungheria non può considerarsi uno Stato democratico. Una “autocrazia elettorale” così viene inquadrato lo Stato del leader europeo più longevo, il signor Viktor Orbán.
Non era mai accaduto sino a oggi. E la plenaria di Strasburgo si è appellata alla Commissione e al Consiglio per l’attivazione dell’atomica delle sanzioni ai danni di un Paese membro: l’articolo 7 che priverebbe Budapest del diritto di voto. È arrivato anche l’invito ad arrestare il flusso dei fondi destinati allo Stato ungherese, almeno finché non si ripristinerà lo stato di diritto.
433 sì contro 123 no, questo quello venuto fuori dal confronto in Europarlamento. Tra i no si distinguono, per così dire, quelli nostrani, ossia Lega e Fratelli d’Italia.
Sulla deriva ungherese non è che vi siano troppe perplessità. Basti prestare ascolto alle lodi di Steve Bannon, teorizzatore della virata eversiva dei Repubblicani, che dipingeva Orbán come una sorta di Trump “ante litteram”. O basti rinfrescarsi la memoria rammentando lo sproloquio razzista dell’autocrate ungherese contro le fantomatiche “razze miste” che determinò le dimissioni di Zsuzsa Hegedus, sua consigliere. Espressione che renderebbero fiero Goebbels.
Il Parlamento l’ha bollata come “autocrazia elettorale”. Perché? In 12 anni di dominio assoluto Orbán ha ben camuffato la sterzata illiberale celandola alle spalle di un impeccabile cantilena elettorale reiterata ogni quattro anni. Tornate elettorali manipolate da un potere e una coercizione sui media a questo punto praticamente complessiva e dalla strutturata sopraffazione su istituzioni, università e ong critiche.
Orbán ha atterrato le istituzioni democratiche senza uso della violenza fisica.
Invitano a una riflessione le parole di Daniel Berg, vicepresidente del partito di opposizione Momentum. Di fronte all’approvazione del rapporto commenta
meglio tardi che mai. L’Ungheria non soddisfa da anni i criteri per una democrazia liberale. E ora ci aspettiamo che la Commissione agisca. Noi liberali abbiamo chiesto una modifica al rapporto che è stato accettato e che consentirebbe a Bruxelles di dare i fondi Ue alle ong, alle associazioni della società civile e alle università che si battono per la democrazia.
L’anima democratica e liberale ungherese non vorrebbe arrivare a dover contare i giornalisti o gli oppositori politici assassinati in strada.
In Ungheria si è venuta a creare una tipologia contemporanea di regime assoluto, un qualcosa di avanguardistico, da diversi addetti ai lavori sancito da tempo come “autoritarismo goulash”. Stando alla politologa di Princeton Kim Lane Scheppele, Orbán sarebbe “un dittatore del XXI secolo”.
E Human Rights Watch non ci va più leggero ricordando come l’autocrate abbia messo sotto scacco gli enti pubblici, sfidato e vinto l’autonomia dei tribunali, annientato ogni media indipendente. E ancora, come abbia criminalizzato il dinamismo democratico della società civile, leso i diritti della collettività Lgbtq e transgender e messo al bando le unioni gay. E infine, come abbia promosso un’“accoglienza” violenta e brutale di migranti e rifugiati criminalizzando l’umanità e quanti si prodigassero in aiuti.
Nel corso del 2015 Orbán e la sua equipe lavorarono alla realizzazione di un muro anti-migranti, cominciando a disdegnare aiuto ai richiedenti asilo in barba alla Convenzione di Ginevra.
Un cocktail di anti islamismo, antisemitismo, odio per i Rom, per il “diverso”. Discorsi che riecheggiano il complottismo nazista contro gli ebrei. Si ricordino alcune sue parole riferito a un immaginario: “un nemico che si nasconde, che non crede nel lavoro ma specula coi soldi”.
Tra i suoi obiettivi preferiti anche George Soros, obbligato a trasferire a trasferire la sua università in Austria.
Orbán ha effettuato il varo di disposizioni omofobe e transfobiche, proibendo unioni e adozioni Lgbtq, correggendo la costituzione per introdurre l’esplicitazione dell’unione matrimoniale tra persone eterosessuali.
Nelle scuole e tra gli organi di stampa sono interdetti discorsi su tematiche Lgbtq, una censura d’altri tempi. In Ungheria, grazie anche alla confisca complessiva dei media e degli enti pubblici e al dominio su quelli privati, sono stati delegittimati o oppressi opposizione e qualsivoglia associazione critica.
La legislazione è stata impostata per rendere agevole il governo maggioritario del suo partito, il Fidesz, in Parlamento.
L’autocrate magiaro governa senza antagonisti. Nell’Unione europea, al contrario, dove è il garante (burattino) di Putin, conta un numero esiguo di compagni (Meloni e Salvini per dirne un paio…).
Il quartetto di Visegrad si è squarciato per via del suo atteggiamento palesemente filorusso. Ma è concesso domandarsi come si sposteranno le convivenze in Europa se la destra italiana suo evidente alleato a Strasburgo si aggiudicherà l’imminente tornata elettorale. Sebbene nel nostro Paese, di fronte a uno scenario del genere, affermi di dover bruciare l’albero di Natale per riscaldarsi.
Di sicuro l’Ungheria del “piccolo Putin” rischierà potenzialmente di celebrare le sante feste con i fondi di unione più che dimezzati, si attende una decurtazione del 65%.
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