Il prezzo del future sul petrolio prosegue il suo trend rialzista iniziato a metà novembre: esiste qualche segnale che suggerisce la fine della tendenza?
Nonostante l’OPEC abbia deciso due settimane fa di lasciare attivi i tagli della produzione, il Brent crude oil dopo aver raggiunto i suoi massimi lo scorso 8 marzo, arrivando a quota 68 dollari, si trova ora in una fase di incertezza. Le dinamiche internazionali sul consumo energetico e il fabbisogno di petrolio sembrano seguire due direzioni divergenti. Da una parte, c’è una tendenza sul lungo termine che vede ampi settori industriali delle maggiori economie mondiali, diminuire la domanda del greggio a favore del passaggio alle energie rinnovabili, solare, eolica, marina. Dall’altra, il rallentamento delle economie nella produzione nei trasporti e negli spostamenti individuali ha causato il crollo del prezzo dell’oro nero arrivato nella terza settimana di aprile del 2020 attorno 18 dollari. Attualmente il prezzo viaggia intorno ai 64 dollari, un prezzo che tuttavia sembra poter cedere a causa delle preoccupazioni di paesi come l’India, il secondo più grande importatore di petrolio subito dopo la Cina.
Il colosso asiatico, consapevole che il suo fabbisogno energetico potrebbe più che raddoppiare nei prossimi 20 anni, vede con particolare malcontento la deliberata diminuzione della produzione in un momento di oggettiva difficoltà internazionale e con decise contrazioni dei consumi. Con una forte dipendenza energetica dall’estero, fa affidamento per più del 60% sulle importazioni dal Medio Oriente, dovrà garantirsi la sopravvivenza cercando di controbilanciare la crescita interna del suo fabbisogno, diversificando rapidamente i suoi approvvigionamenti. D’altro canto anche gli investitori negli Stati Uniti cominciano a sussultare per la crescita del prezzo, spingendo per un ritorno allo share oil, ponendosi così in diretta concorrenza col Principe Abdulaziz bin Salman, responsabile delle decisioni nazionali dell’Arabia Saudita in fatto di politiche energetiche, nonché attuale presidente dell’OPEC.
Come è noto infatti alcuni dei paesi produttori dell’OPEC hanno fatto leva sugli introiti generati dal raddoppio dei prezzi, per sistemare le casse statali colpite dalla recente crisi globale. Tuttavia questo non sembra essere stato ancora sufficiente, gli ultimi dati sull’economia dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi mostrano una contrazione della crescita di circa lo 0,3% e del 0,4% del PIL rispetto alle previsioni di tre mesi fa. Se i tempi del rallentamento della produzione di petrolio dovessero allungarsi, potremmo quindi paradossalmente assistere, con il ritorno della produzione dello shale oil a un lungo trend ribassista del greggio convenzionale, dai 60 dollari, fino a raggiungere un prezzo vicino al primo supporto disponibile intorno ai 45 dollari.
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Che cos’è lo share oil o petrolio di scisto?
Il petrolio di scisto è un petrolio non convenzionale prodotto dai frammenti di rocce di scisto bituminoso mediante tecniche di trivellazione particolari, come la fratturazione idraulica, nota anche come fracking. In pratica, gli idrocarburi contenuti nelle rocce vengono liberati iniettando dentro i pozzi di trivellazione acqua ad alta pressione.
I difetti di questi giacimenti sono diversi, infatti i giacimenti di shale oil si esauriscono molto più rapidamente degli altri, è difficile prevedere quanto petrolio potrà essere estratto e nonostante il miglioramento delle tecnologie di fracking, il costo d’estrazione è superiore ai 24 dollari al barile. Infatti mentre per i paesi produttori OPEC il costo è inferiore ai 10 dollari, questi giacimenti diventano economicamente vantaggiosi solo quanto il prezzo di vendita al barile diventa estremamente alto, proprio come accade tra il 2013 e il 2014, quando vi fu un intensa produzione di share oil quando il prezzo del petrolio era oltre i 100 dollari al barile.
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L’Italia è in grado di produrre petrolio?
L’Italia all’interno dello scenario internazionale non è certamente in grado di sopperire al fabbisogno nazionale con le sue produzioni, che rappresentano circa lo 0,2% della produzione globale. Tuttavia l’Italia produce petrolio da giacimenti presenti in Basilicata, che nel 2019 sono stati concessi alla Total per l’inizio delle attività estrattiva. La materia prima estratta raggiungerà almeno i sei milioni di tonnellate rispetto a un consumo annuale di circa 60 milioni di tonnellate. Questo vuol dire che raggiungeremo circa il 10% del fabbisogno nazionale con la produzione interna, con una ricaduta positiva sul costo dell’energia e sui risparmi delle famiglie.