Trading e tasse: è più conveniente il regime amministrato o il regime dichiarativo?

Molto spesso un trader alle prime armi, concentrandosi sugli aspetti operativi dell’attività di trading, sottovaluta l’importanza di una adeguata conoscenza della normativa fiscale in ambito finanziario. Vediamo come la scelta tra i due regimi fiscali attualmente in vigore abbia un impatto non trascurabile sul risultato finale.

banconote
Adobe stock

Così come accade per ogni altro tipo di lavoro, anche il trader è tenuto al pagamento delle tasse, qualora ottenga dei guadagni dalla propria attività di investimento o di trading online. Questo vale a prescindere che l’attività speculativa venga svolta professionalmente, quindi come fonte primaria di reddito, oppure semplicemente allo scopo di ottenere una seconda entrata, durante il tempo libero dalla propria attività lavorativa principale.

E’ importante, dunque, che chiunque cominci a fare trading con denaro reale abbia delle conoscenze di base sulla disciplina fiscale del settore. E’ necessario comprendere i concetti fondamentali della normativa fiscale che riguarda i profitti derivanti dal trading online, a maggior ragione, considerando che il legislatore, in Italia, consente agli operatori finanziari di scegliere tra due regimi differenti di tassazione: regime amministrato e regime dichiarativo. Come vedremo a breve, essi presentano profonde differenze sia in termini burocratici che di impatto sull’utile netto, ovvero sul guadagno che resta nelle tasche dell’investitore dopo aver pagato le tasse. Tale scelta deve essere effettuata dal trader nel momento in cui richiede al proprio broker l’apertura di un conto reale, per cui è fondamentale avere le idee chiare sui pro e i contro dei due regimi già dagli albori della propria carriera. E’, comunque, possibile modificare la scelta effettuata al momento dell’apertura del conto e, in questo caso, il passaggio al nuovo regime fiscale sarà valido a partire dall’1 gennaio dell’anno solare successivo a quello in cui è stata effettuata la richiesta al proprio broker.

LEGGI ANCHE >> Quali sono i Broker autorizzati in Italia dalla Consob?

Le differenti tipologie di reddito e quali aliquote si applicano alle rendite finanziarie

Allo scopo di fare chiarezza al riguardo della natura dei proventi che si possono ottenere dall’attività di investimento, possiamo distinguere tra due categorie:

  • redditi di capitale: sono le entrate derivanti dalla detenzione passiva di un determinato strumento finanziario. Ad esempio, rientrano in questa categoria il dividendo che un azionista percepisce in virtù del mero possesso di un determinato numero di azioni oppure la cedola periodica che un obbligazionista ha diritto a percepire nel momento in cui sottoscrive un prestito obbligazionario o acquista sul mercato delle obbligazioni. In altri termini, si tratta della remunerazione spettante all’investitore nel momento in cui impiega i propri risparmi in capitale di rischio (azioni) o in titoli rappresentativi di debito (obbligazioni). Sono proventi legati, dunque, ad una attività di investimento di lungo periodo.
  • redditi diversi di natura finanziaria: in questa categoria rientrano, invece, i proventi derivanti dall’attività di trading, quindi dalla compravendita di strumenti finanziari finalizzata ad ottenere un guadagno dall’oscillazione, anche in ottica di breve termine, della quotazione degli stessi nei mercati finanziari. Il guadagno, in questo caso, non è legato al mero possesso dello strumento, ma dipende da come si muove il prezzo del titolo durante il periodo di detenzione. Da ciò deriva che il trader può ottenere un profitto, ma anche una perdita qualora il prezzo si muova in direzione contraria alla posizione assunta sul mercato. Ad esempio, se acquistiamo un’azione al prezzo di 10 euro, perché la nostra analisi ci suggerisce un rialzo del titolo, e riusciamo in effetti a rivenderla a 12 euro, abbiamo ottenuto una plusvalenza (o capital gain) di 2 euro. Qualora, invece, la nostra analisi si rivelasse sbagliata e il prezzo scendesse, costringendoci a vendere il titolo a 7 euro, otterremmo una minusvalenza di 3 euro. Le plusvalenze e minusvalenze derivano, dunque, dalla differenza positiva o, rispettivamente, negativa, tra il prezzo di vendita e il prezzo di acquisto di uno strumento finanziario. A fini fiscali assumono rilevanza proprio le plusvalenze e minusvalenze, dalle quali si calcola la base imponibile su cui applicare le aliquote previste dall’attuale normativa fiscale.

Le rendite finanziarie sono soggette ad una aliquota sostitutiva. Ciò significa che viene applicata una disciplina diversa rispetto all’IRPEF, ovvero l’imposta che grava sulla generalità dei redditi prodotti da persone fisiche, e all’IRAP, che colpisce le attività produttive. Nel corso degli anni, le aliquote applicate sui proventi finanziari sono state modificate numerose volte, naturalmente sempre al rialzo. Dal 2014, l’aliquota sostitutiva si è stabilizzata al 26% (rispetto al 12,5% previsto prima dei rialzi) per tutte le tipologie di strumenti finanziari, a parte alcune eccezioni, tra cui spiccano i Titoli di Stato e il risparmio postale, su cui continua ad essere applicata un’aliquota pari al 12,5%. La normativa fiscale, dunque, non effettua una distinzione basata sulle due categorie di proventi finanziari sopra descritte, ma prevede soltanto poche eccezioni alla regola generale.

Tale distinzione, invece, diventa rilevante ai fini del calcolo della base imponibile della rendita finanziaria da tassare. Infatti, nell’ambito dei redditi diversi di natura finanziaria, una minusvalenza può essere portata in compensazione delle plusvalenze e l’aliquota del 26% verrà applicata soltanto sulla differenza; inoltre, se la minusvalenza è maggiore della plusvalenza, non si dovranno pagare tasse. Al contrario, non è possibile effettuare compensazioni tra le due tipologie di rendite finanziarie. Perciò, non si può portare sottrarre una minusvalenza da un reddito di capitale: se in un anno solare abbiamo ottenuto 10 euro di dividendo dal possesso di un’azione, ma abbiamo subito una minusvalenza di 5 euro dalla vendita della stessa azione, l’aliquota del 26% dovrà essere applicata all’intero reddito da capitale di 10 euro, senza possibilità di sottrarre la minusvalenza.

Regimi fiscali: il regime amministrato

Come possibile intuire dal nome, il regime amministrato prevede che il broker, presso cui il trader ha deciso di aprire un conto trading, agisca da sostituto d’imposta. Scegliendo questo regime di tassazione, quindi, il trader delega all’intermediario la completa gestione fiscale della propria attività di trading, mentre egli viene esonerato da qualunque tipo di obbligo burocratico in materia fiscale. Sarà il broker ad effettuare la dichiarazione ed il versamento delle imposte, ovviamente dopo aver effettuato una ritenuta alla fonte a titolo d’acconto.  Ciò significa che il capital gain incassato dal trader nel proprio conto trading viene contabilizzato, per ogni operazione chiusa in profitto, al netto della ritenuta d’acconto del 26% effettuata dal broker. Dato che parliamo, nello specifico, di trading online e, dunque, di redditi diversi di natura finanziaria, ogni minusvalenza può essere portata in detrazione delle plusvalenze successivamente ottenute, ai fini dell’ottenimento della base imponibile su cui applicare di volta in volta l’aliquota del 26%. Va specificato, inoltre, che la possibilità di compensare le minusvalenze con le plusvalenze future è possibile solo all’interno dello stesso conto, non tra conti diversi che, eventualmente, un trader detiene con lo stesso broker.

Vediamo un esempio pratico che aiuta a capire cosa accadrebbe in un conto trading gestito in regime amministrato. Ipotizziamo 8 operazioni effettuate durante un anno solare, con questo esito:

  • 05/01/2020   deposito          10.000 euro
  • 10/01/2020   plusvalenza        +500 euro  –  ritenuta 26%=  +370 euro
  • 15/01/2020   plusvalenza        +600 euro  –  ritenuta 26%=  +444 euro
  • 20/01/2020  plusvalenza        +700 euro   –  ritenuta 26%= +518 euro
  • 01/02/2020  minusvalenza     -200 euro
  • 02/03/2020  plusvalenza        +300 euro: (300-200)-ritenuta 26%= +74 euro
  • 02/04/2020  minusvalenza     -500 euro
  • 07/08/2020  minusvalenza     -600 euro
  • 18/12/2020   minusvalenza     -700 euro
  • Perdita netta:= 370+444+518+74-500-600-700= -394 euro. Si ottiene così una perdita di 394 euro, ovvero del 3,94% dell’importo inizialmente versato nel conto.

LEGGI ANCHE >> Controlli a tappeto del Fisco: chi è finito nel mirino

Regimi fiscali: il regime dichiarativo

Nel regime dichiarativo, il contribuente (cioè il trader) è tenuto a presentare la dichiarazione dei redditi annuale e, dunque, a compilare il Modello Redditi (precedentemente denominato Modello Unico). Il trader dovrà compiere, dunque, tutte le attività necessarie per la dichiarazione e il versamento delle imposte, oppure affidarsi ad un commercialista per svolgere tali compiti, che nel regime amministrato vengono svolti direttamente dal broker. L’investitore che sceglie questo regime di tassazione pagherà le tasse soltanto nell’anno successivo a quello in cui ha effettuato attività di trading. La plusvalenza ottenuta complessivamente a fine anno deve, dunque, essere riportata nella dichiarazione e solo successivamente avverrà il versamento.

In questo caso, le plusvalenze derivanti da ogni operazione chiusa in profitto vengono portate in aumento del saldo del conto per il loro intero ammontare, ossia al lordo delle imposte. Questo regime attribuisce al trader la possibilità di posticipare temporalmente il versamento delle imposte. Così facendo, il trader dispone di maggiore liquidità sul conto trading, rispetto a quanto accade nel regime amministrato, dove il versamento su base giornaliera priva molto presto l’investitore delle somme da destinare al pagamento delle imposte. Il regime dichiarativo consente, dunque, di disporre di maggiore risorse da destinare agli investimenti.

Il regime dichiarativo permette, inoltre, di effettuare la somma algebrica di tutte le plusvalenze e minusvalenze generate durante l’anno, compensandole tra di loro, anche qualora derivino da conti diversi. Inoltre, qualora si ottengano delle minusvalenze a fine anno, queste possono essere portate in compensazione delle plusvalenze ottenute entro i successivi quattro periodi di imposta.

Riportiamo le stesse 8 operazioni considerate, a titolo di esempio, nel regime amministrato e vediamo come cambierebbe il risultato finale applicando le regole del regime dichiarativo:

  • 05/01/2020   deposito          10.000 euro
  • 10/01/2020   plusvalenza        +500 euro
  • 15/01/2020   plusvalenza        +600 euro
  • 20/01/2020  plusvalenza        +700 euro
  • 01/02/2020  minusvalenza     -200 euro
  • 02/03/2020  plusvalenza        +300 euro
  • 02/04/2020  minusvalenza     -500 euro
  • 07/08/2020  minusvalenza     -600 euro
  • 18/12/2020   minusvalenza     -700 euro
  • Risultato prima delle imposte= +100 euro
  • Utile netto= 100-26%= +74 euro

Come è possibile notare, in questo caso si ottiene un utile netto di 74 euro, ovvero un rendimento sul capitale iniziale di +0,74%. Confrontando questo risultato con quello ottenuto da un conto gestito in modo identico, nel regime amministrato, è evidente come il regime dichiarativo sia in grado di ottimizzare il risultato finale trasformando, nel caso di questo esempio, una perdita in un profitto.

Regime dichiarativo e regime amministrato: vantaggi e svantaggi

Dagli esempi numerici appare evidente che gli unici vantaggi legati alla scelta del regime amministrato sono i seguenti:

  • semplificare la gestione dell’aspetto fiscale. Il trader/contribuente dovrà concentrarsi esclusivamente sugli aspetti operativi della propria attività, senza preoccuparsi delle scadenze e dei vari grattacapi legati agli obblighi dichiarativi e di pagamento delle imposte;
  • mantenere l’anonimato e non assumere alcuna responsabilità nei rapporti con il fisco, in quanto tutti gli obblighi fiscali gravano sul broker.

Risulta chiaro, dagli esempi effettuati, che il regime dichiarativo presenti notevoli vantaggi dal punto di vista economico-finanziario, in quanto consente di:

  • ottimizzare il risultato finale e pagare meno imposte, grazie alla compensazione tra plusvalenze e minusvalenze a fine anno, piuttosto che “in corso d’opera”. Dall’esempio effettuato, si nota come il regime amministrato determini un notevole peggioramento del risultato soprattutto quando le operazioni in perdita si concentrano negli ultimi periodi dell’anno. Se, in questo caso, le plusvalenze non sono sufficienti per coprire le minusvalenze ottenute in precedenza il risultato dell’anno sarà negativo. Nell’esempio, pur essendo la somma delle ultime tre minusvalenze pari alla somma delle prime tre plusvalenze lorde (con un saldo di +100 nelle due operazione centrali), il “taglio” subito da tali plusvalenze, a causa dell’immediata applicazione della ritenuta d’acconto, determina un risultato negativo a fine anno;
  • avere a disposizione maggiori risorse da investire. La ritenuta, nel caso del regime amministrato, assorbe dei capitali che il trader potrebbe reinvestire ottenendo nuove rendite, secondo la logica dell’interesse composto.

LEGGI ANCHE >> Le riforme fiscali che ci attendono questo mese: tutte le novità

In conclusione, pur comportando una maggior complessità gestionale, il regime fiscale più conveniente è quello dichiarativo. L’obiettivo principale di chi impiega tempo, fatica e risorse per svolgere una determinata attività lavorativa è quello di ottenere un guadagno: da questo punto di vista, la differenza tra i due regimi è talmente grande che vale la pena anche di sostenere il costo opportunità legato agli adempimenti fiscali da svolgere nel regime dichiarativo e/o il costo della parcella del commercialista cui si richiede assistenza.

Gestione cookie