Con il tentativo di sostenere l’economia e avviare un circolo virtuoso indispensabile a sostenere il crescente debito pubblico, lo Stato italiano è sempre più incline a investire nel settore privato.
In Italia, lo stato centrale e gli enti locali gestiscono direttamente e indirettamente un ecosistema di migliaia di partecipate. Tra queste vi sono anche sia grandi imprese multinazionali come Enel e Leonardo.
L’economia italiana conta ormai partecipazioni dirette e indirette dello Stato che hanno superato i 57 miliardi di euro. Il maggiore investitore a Piazza Affari è il popolo italiano, che contribuisce a sua insaputa al finanziamento degli investimenti per mezzo delle casse statali, senza tuttavia ricevere in cambio alcuna remunerazione, ma rischiando comunque il denaro che per mezzo dei conti pubblici viene utilizzato in parte per sovvenzionare le partecipazioni statali, sia in modo diretto che per mezzo di pacchetti azionari acquisiti dalle regioni e dagli enti locali. Dati 2020, le partecipazioni di maggioranza o controllo statali, considerando solo le società quotate o con un relazione diretta sulla borsa italiana sono:
Le società completamente o quasi dallo Stato italiano che non sono quotate in borsa ma hanno strumenti finanziari quotati sono:
Nonostante lo Stato italiano agisca in vece del più grande imprenditore del paese, il confronto con la realtà europea fornita dai dati Eurostat, mette in evidenza una tendenza generalizzata all’interventismo e al consolidamento patrimoniale delle aziende, per mezzo degli interventi statali, che tuttavia sorprende in quanto Germania, Spagna ma soprattutto Francia, sembrano intervenire in modo molto più marcato in termini di Pil rappresentato dalle aziende rispetto ai valori di quello italiano. Il tessuto produttivo italiano caratterizzato da tante piccole e medie imprese, rende inevitabilmente minori gli interventi calcolati in relazione al Pil, diversamente da realtà come Germania, Francia o Regno Unito, nei quali il ruolo strategico nel tessuto produttivo è giocato da grandi conglomerati industriali.
Tuttavia se si confrontano le partecipate pubbliche, considerando soltanto le 50 società più grandi delle rispettive nazioni, è possibile mettere in evidenza il grado di interventismo statale nell’economia italiana rispetto ai partner europei. Infatti secondo i dati Orbis 2019 queste sono 13 in Italia, 15 in Francia e poi a calare 6 in Germania 5 in Spagna e nessuna nel Regno Unito. Dal 1990 fino a pochi anni fa, l’Italia ha eseguito importanti privatizzazioni che sono rimaste in linea con i principali paesi europei, soprattutto con l’ingresso e la formazione dell’Unione Europea. Nello stesso periodo è tuttavia esploso il fenomeno delle partecipate locali, che diversamente dalle partecipazioni in realtà imprenditoriali multinazionali, molte di queste tendono a essere poco trasparenti e antieconomiche.
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La fase delicata che stiamo attraversando implica inevitabilmente un incremento della spesa pubblica. Se l’unica possibilità di avviare un circolo virtuoso al fine di evitare di essere travolti dal sempre più crescente debito pubblico, è quella di restituire al Paese una società con una solida costellazione di imprese, bisogna stare attendi a non creare legami eccessivi, in special modo nell’ultimo periodo, che tramite iniezioni di liquidità diventano un fardello economico quando queste cominciano a sottoperformare o non si trovano più esposte ai correttivi della competizione.
Sappiamo bene che più la presenza pubblica è solida in un settore, meno i concorrenti saranno indotti a entrare e misurarsi coi rivali controllati dallo Stato, nella consapevolezza che essi riusciranno ad avere in un modo o nell’altro trattamenti di favore. Prima o poi quando verranno meno le capacità di sostegno finanziario dello Stato, la macroscopica evidenza delle coperture delle singole aziende verrà messa in luce e potremmo in molti casi dover fare i conti, con la realtà di una finanza pubblica che ha adottato politiche eccessivamente interventiste e insostenibili per il mercato interno, collegato inevitabilmente ai cicli economici transnazionali.
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