Il relativo periodo di stabilità geopolitica, risultato degli equilibri di potere derivanti dalla divisione del mondo in due blocchi, sembra oggi ritornare sotto la spinta alla cooperazione che nasconde fragilità economiche.
Dalla Seconda guerra mondiale a oggi gli Stati Uniti sono stati il centro economico e politico dell’Occidente, e in seguito al crollo delle potenze sovietiche anche della restante parte. Oggi questa egemonia sembra scivolare velocemente verso l’Oriente. Quelle che erano economie emergenti, hanno saputo organizzare la loro politica interna escludendo larghe fasce di dissenso e velocizzando i loro processi decisionali, centralizzando l’economia e simulando il modello capitalista, con il risultato di avere dato nuovo lustro ai loro paesi, non solo dal punto di vista finanziario ma anche nella credibilità internazionale.
Il risultato suggerisce che la tendenza a generare sistemi di potere centralizzati come la Russia e la Cina crea quelle basi di consenso tali da sopperire al sospetto dei paesi democratici, che possono in cambio avvantaggiarsi da accordi commerciali. Tuttavia essi adesso sembrano puntare il dito sugli eccessi che il lungo sonno del poliziotto del mondo, concentrato negli ultimi 15 anni in Medio Oriente e negli ultimi 5 in dissidi e scandali interni, non ha voluto denunciare, lasciando che un nuovo ordine mondiale emergesse dal vuoto di potere.
È recente la notizia dello scontro diplomatico avvenuto tra Vladimir Putin e Joe Biden, che rispondendo a una domanda diretta del giornalista George Stephanopoulos dell’emittente nazionale australiana ABC, ha etichettato come ‘killer’ il presidente russo, che già tempo addietro era stato indicato come il responsabile delle interferenze elettorali nella corsa presidenziale del 2020. Senza considerare come i rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina siano diventati particolarmente tesi durante l’amministrazione Trump.
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Russia e Cina sono adesso molto vicine per interessi geopolitici e commerciali, formando un’intesa a fronte di un nemico comune, individuato nei paesi occidentali come Australia, Gran Bretagna, e ultimamente Stati Uniti, che da qualche tempo in modo corale, hanno cominciato a puntare il dito sull’assenza del rispetto dei diritti umani e della democrazia. Sono noti i casi di eccessiva ingerenza da parte della Cina nell’assetto politico liberale di Hong Kong e della persecuzione di fasce etniche della stessa popolazione cinese da parte del governo.
Russia e Cina, stanche dell’egemonia del vecchio ordine, hanno deciso di alzare le loro voci e affiancarsi in un momento nel quale le difficoltà economiche potrebbero riconfigurare gli equilibri a livello mondiale. Il ministro degli esteri cinese Wang Yi e l’omologo russo Sergei Lavrov si sono incontrati martedì raggiungendo un’intesa strategica, che prevede accordi di cooperazione e coordinazione per garantire la stabilità geopolitica. Questo a fronte della percezione che il multilateralismo attuale sia in realtà una maschera per imporre il volere degli Stati Uniti a discapito degli altri paesi, che tuttavia non sembrano in grado di mobilitarsi essendo ormai troppo coinvolti e dipendenti dal punto di vista economico e finanziario nonché militare.
Sono questi i frangenti con i quali Russia e Cina, possono emergere e risultare capaci di imporre la loro visione sullo scenario internazionale. I due paesi durante la crisi sanitaria si sono velocemente avvicinati rafforzando anche la cooperazione medica, energetica, la produzione agricola e tecnologica, formando quello che nei fatti è diventato il nuovo blocco antiliberista e illiberale. A oggi la Cina affronta una crisi interna di natura finanziaria, velata da grandi manovre e risultati della ripresa industriale: i governi regionali interni alla Cina hanno rivelato più di duemila miliardi di debito non dichiarato, con preoccupanti accelerazioni nell’anno in corso.
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Anche la Cina sembra quindi attualmente fare i conti le sue bolle finanziarie, create negli ultimi vent’anni con l’applicazione del capitalismo di stato che non mai del tutto lasciata esposta l’economia alla competizione e ai fallimenti, quasi sempre compensati da acquisizioni statali. Tanto che la China Banking and Insurance Regulatory Commission, l’agenzia governativa di controllo sulle attività bancarie e assicurative, è dovuta intervenire a fronte del rischio rappresentato dal sempre più crescente ammontare del debito inesigibile delle imprese, che sarebbe pari a circa 3.700 miliardi di dollari.
La creazione di questo enorme debito è risultato dalla pressione che i piani di sviluppo economici hanno imposto al naturale evolversi dell’economia cinese, anche sotto la crisi dovuta ai lockdown con crescenti spese fuori budget e prestiti che si sono finanziati attraverso l’acquisto di obbligazioni. Uno dei settori più esposti in questo senso è quello immobiliare, che è stato potenziato nonostante l’assenza di domanda con interi quartieri che tutt’oggi sono ancora disabitati e prestiti che potrebbero non essere mai riscossi, qualora i prezzi delle case dovessero rivelarsi inferiori alle aspettative. Le conseguenze sul mercato obbligazionario interno, equivalente a circa 15.000 miliardi di dollari, secondo al mondo per capitalizzazione dopo quello degli Stati Uniti, potrebbero essere particolarmente gravi.
Nel 2021 arriveranno a scadenza sul mercato interno bond per il controvalore di poco più di mille miliardi di dollari. Se associamo a questo l’effetto di possibili regolamenti per calmierare l’uso della leva finanziaria a causa dell’esposizione eccessiva, avvenuta tra il 2017 e il 2019, abbiamo un settore che non è più in grado di finanziare il suo debito con nuovi investimenti, rischiando perciò di collassare e finire per essere fagocitato dai suoi stessi obbiettivi economici.
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