Meno prestiti e a costi sempre più sostenuti. La tendenza promette di continuare almeno fino alla prima metà del 2023
Soffrono i creditori dei finanziamenti di prestiti e soprattutto mutui.
Nei primi sette mesi dell’anno i finanziamenti delle banche alle famiglie e alle imprese sono cresciuti in media dello 0,4%. Si tratta di notevole rallentamento rispetto la media degli ultimi cinque anni pari a 1,2%.
Secondo la Federazione autonoma bancari italiani per i mutui ipotecari il rallentamento nella crescita è stato ancora più evidente; se il ritmo di espansione a partire dal 2018 è stato, in media, del 4,6%, nel corso del 2022 i molteplici fattori di incertezza ne hanno radicalmente modificato l’andamento.
La crisi dei mutui sembra una possibilità per alcune famiglie soprattutto in Italia. Per questo tipo di finanziamento è richiesto un tasso di interesse medio del 2,62% fino a 5 anni, contro un livello medio dell’1,58% delle famiglie francesi e del 2,27% per quelle spagnole. Praticamente in Italia gli interessi sono aumentati anche rispetto i Paesi in Ue a noi più simili.
Con il costo del denaro all’1,25% dovuto al nuovo rialzo dei tassi dello 0,75% deciso nei giorni scorsi dalla BCE, è possibile immaginare interessi superiori al 5%. A distanza di neanche due mesi dal primo rialzo dei tassi, il sistema finanziario sconta già particolari segnali di vulnerabilità. Gli istituti di credito appesantiscono il generale clima di sfiducia mentre l’inflazione che ha superato 11% in Italia, sembra ben lungi dall’essere domata.
Meno prestiti; una sinergia di cause che limitano famiglie e imprese colte impreparate
Ciò che si realizza è una sinergia di fattori negativi, che in attesa dell’effetto benefico delle manovre restrittive, ha forti implicazioni sociali e finanziarie per famiglie e imprese.
La tradizionale cautela degli italiani nel ricorrere al credito bancario ha lasciato spazio negli ultimi anni a un maggiore propensione a indebitarsi per via di tassi favorevoli e agevolazioni fiscali. L’improvvisa contrazione del credito nell’attuale contesto macroeconomico porta un inasprimento rapido e inaspettato delle condizioni finanziarie.
La persistenza dell’inflazione è stata provata nell’ultima settimana anche in paesi come gli Stati Uniti; i primi a varare le politiche restrittive, nonché la Gran Bretagna, che pur in Europa è fuori dall’euro. La conclusione degli istituti centrali sono state ampiamente disattese; a inizio 2021 la Fed credeva che i prezzi sarebbero aumentati di meno del 2% in ciascuno dei due anni successivi. La Fed non è stata certo la sola a realizzare aspettative sbagliate. Anche le previsioni del FMI hanno gravemente e ripetutamente sottostimato il pericolo incombente.
Da un lato si teme che un eccessivo inasprimento porterà a una brutta recessione, dall’altro che un arresto prematuro del rialzo dei tassi manterrà alta per lungo tempo l’inflazione. In entrambi i casi bisognerà affrontare un rallentamento della crescita economica.
I tre fattori che hanno contribuito all’inflazione
Secondo il FMI, nel 2021 circa il 40% dell’aumento dei prezzi negli Usa e il 66% di quelli dell’eurozona, rispetto a quelli del 2019 è stato attribuibile a interruzioni della produzione e all’aumento dei prezzi delle materie prime. Gli abbondanti stimoli e l’improvvisa propensione al consumo delle famiglie hanno rappresentato un altro 30% delle cause di incremento sia negli Stati Uniti che in Europa.
Se nella maggior parte dei casi di alta inflazione è stata efficace una politica monetaria più restrittiva, la natura insolita delle circostanze attuali può significare risultati anche molto diversi rispetto al passato. Le credenze sono difficili da misurare, vedremo nei dati dei prossimi mesi smentita o conferma degli effetti delle manovre delle banche centrali.