Nei primi tre mesi la presidenza di Joe Biden è stata segnata dal ritorno dell’interventismo pubblico.
I prossimi anni mostreranno se il paese liberale per eccellenza metterà fine al suo ciclo, iniziato almeno vent’anni fa con la presidenza Bush, per iniziare un nuovo corso con un ritorno al ruolo centrale dello stato.
In questi primi tre mesi, la Casa Bianca ha mostrato tutta l’intenzione di ripresentare una politica statalista, al fine di perseguire gli obbiettivi finanziari e ordinare il corso dell’economia. Questo potrebbe portare almeno negli anni in cui ci sarà una maggioranza sostenuta dal Partito Democratico, alla fine dell’era liberista e un ritorno a un socialismo come lo intese Franklin Delano Roosevelt, famoso per il New Deal, il nuovo corso che consentì agli Stati Uniti di uscire dalla Grande Depressione degli anni Trenta, grazie a quello che fu il più grande piano di riforme sociali della storia degli Stati Uniti.
Era la fine di febbraio del 2020 quando durante la campagna elettorale Joe Biden dichiarava “Gli americani non chiedono una rivoluzione, chiedono progresso”
Con queste parole l’attuale presidente americano, si opponeva alla campagna elettoral, del suo avversario alle primarie Bernie Sanders, il quale aveva idee ben più radicali di quelle di un centrista come Biden effettivamente appariva.
Tuttavia abbiamo visto come le cose siano andate diversamente, il 46esimo Presidente degli Stati Uniti vuole investire a partire dalle infrastrutture fino alle comunità, con un piano per uscire dalla crisi di fiducia e da quella sanitaria stanziando più di 5mila miliardi di dollari.
Politicamente e socialmente, negli ultimi quattro anni gli Stati Uniti hanno subito autentiche fratture che sono arrivate fino al cuore della democrazia, partendo dalla discriminazione delle minoranze ignorate e soppresse nelle loro proteste, fino a un tentativo di un vero e proprio colpo di Stato avvenuto nella sede del Campidoglio il 6 gennaio 2021.
Il movimento Black Lives Matter è stato uno dei fattori determinanti che hanno avuto peso nello spostare a sinistra le politiche dell’attuale presidente degli Stati Uniti. Infatti la base elettorale che ha sostenuto Sanders chiede ancora le riforme di giustizia sociale rimaste inascoltate durante la presidenza Trump.
Sanders è adesso il responsabile della commissione per la spesa pubblica e rappresenta l’uomo chiave dal quale deve passare ogni riforma economica durante questa presidenza, almeno finché il Partito Democratico di cui anche Sanders fa parte, avrà il controllo sul 50% del Senato.
Questo è l’uomo che ha di fatto spostato il centrismo del partito così come l’avrebbe voluto Biden, il quale aveva fatto parte in passato di governi neoliberali. Sanders ha inciso profondamente nell’applicazione e diffusione di idee social democratiche, volute soprattutto dalla base di giovani progressisti americani che egli rappresenta.
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Nonostante le sue affermazioni in campagna elettorale, circa un anno dopo quella rivoluzione Biden ha cominciato a farla. I motivi sono di natura economica e sociopolitica, infatti la pandemia ha intensificato e diffuso tutte le dinamiche che hanno acuito il malcontento, amplificando le istanze di cambiamento che hanno riportato a galla tutte le circostanze che hanno provocato negli anni i crescenti malumori, responsabili anche per una parte della precedente vittoria di Donald Trump. Proprio la sua retorica e la sua amministrazione hano poi in parte cercato di risolvere e d’altre parte accentuato le fratture all’interno della complessa e variegata società americana.
Ci è voluto quindi il ritorno a politiche stataliste per fare sentire la presenza di un governo capace di intervenire e schierarsi dalla parte di tutti i cittadini, insoddisfatti sia per la gestione economica e la concomitanza della mancata gestione della crisi sanitaria, sia per i diritti civili delle minoranze, che non hanno ricevuto l’adeguata considerazione.
Per poter ottenere un significativo ritorno elettorale c’era bisogno di riscuotere consenso nelle aree di maggiore interesse politico, l’accesso alla sanità e all’educazione, la giustizia civile, il cambiamento climatico.
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Dopo avere presentato un piano economico per la risanazione a breve termine del mercato del lavoro e la distribuzione dei vaccini, si affiancherà in un secondo momento un piano a carattere sociale, dove verranno risolte con un investimento da mille miliardi di dollari le carenze dei programmi e delle infrastrutture relative all’istruzione e alla sanità.
Uno sforzo economico che l’attuale Presidente intende finanziarie con l’aumento delle tasse sulle imprese, che passeranno dal 21 al 28%, cambiando paradigma nei rapporti tra lo stato e la parte più ricca del paese. Un aumento che servirà per assicurarsi sul medio periodo una grande capacità nella spesa pubblica, soprattutto per quanto riguarda la costituzione di un’assicurazione sanitaria universale, che sarà evidentemente in parte finanziata con gli aiuti statali.
In questi giorni, almeno un milione di persone ha potuto ottenere la copertura sanitaria, grazie alle agevolazioni fiscali dovute al Affordable Care Act voluta da Obama, più del doppio rispetto a quelle che ne avrebbero dovuto avere bisogno, rispetto ai numeri dei due anni precedenti durante l’amministrazione Trump, il quale aveva ridotto le convenzioni e limitato l’accesso modificandone i requisiti, in modo da renderla praticamente inefficace.
Se unire gli americani è l’obbiettivo primario di Joe Biden, questo può essere ottenuto in tempi così difficili soltanto risolvendo alla base le disparità economiche che si sono acuite anche a causa della crisi economica, con il prodotto interno lordo del paese che nel 2020 è diminuito del 3,5%, il dato peggiore dai tempi della Seconda Guerra mondiale.
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Sono passati quasi cento anni dalla Grande Depressione del 1929, con il crollo della Borsa di Wall Street che ebbe il suo culmine il 29 ottobre, il famoso Giovedì nero.
Uno dei motivi per il quale oggi possiamo ancora guardare a quei giorni evidenziandone la gravità, è l’ingiustizia legata al fatto che le banche utilizzarono i soldi dei correntisti per speculare in borsa, così quando esplose la bolla finanziaria vennero persi tutti i risparmi dei cittadini e delle famiglie.
A questo proposito venne siglato nel 1933 il Glass Steagall Act, una legge promulgata al fine di garantire una relativa stabilità delle banche, impedendo loro di mettere in pericolo i soldi dei correntisti in operazioni finanziarie ad alto rischio. Essa fu poi abrogata alla fine degli anni ’90 e pagata dai cittadini americani con la crisi dei mutui subprime, con effetti devastanti sul sistema finanziario che causò tra il 2007 e 2009 quella che per gli Stati Uniti è stata la grande recessione.
È questo il genere di circostanze e ingiustizie che l’amministrazione Democratica è tenuta a risolvere, in quanto hanno degli effetti che coinvolgono generazioni di americani, riflettendosi anche sul resto del mondo.
Da qui la decisione di una vera e propria rivoluzione, che costerà il 10% del PIL americano, distribuiti per tutta la durata della presidenza Biden. Miliardi che verranno spesi oltre che per ripristinare la giustizia e lo stato sociale, anche e soprattutto per finanziare la modernizzazione delle infrastrutture pubbliche, delle catene produttive essenziali e per ridurre l’impatto che i processi produttivi e industriali hanno sull’ambiente. Questo al fine di raggiungere gli standard di neutralità ecologica iniziate con il rientro immediato nell’Accordo sul clima di Parigi.
Gli USA, oggi stremati dalla pandemia, hanno bisogno di una soluzione radicale almeno come quella che fu intrapresa da Roosvelt con il New Deal. Le soluzioni che verranno attuate in questi anni difficili avranno il compito di proteggere gli Stati Uniti, il loro ruolo di guida economica e di mediatore geopolitico.
Gli Stati Uniti oggi sentono il bisogno di ripensare il ruolo dello wtato nei rapporti internazionali che determinano la vita economica del Paese. L’amministrazione Biden sembra avere tutta l’intenzione di mantenere la pressione sulla Cina, sia in termini economici che di influenza internazionale. Nello scenario odierno assistiamo all’imbarazzo con il quale il colosso asiatico cerca di aumentare la sua soft power e migliorare di conseguenza le proprie relazioni internazionali
La Cina è bisognosa di trovare un nuovo equilibrio geopolitico, tale da garantire spazio di manovra al suo rinnovato asseto economico militare, pari a quello ormai delle superpotenze, ma che diversamente da queste non è riuscito ancora a godere nella giusta misura di quei vantaggi economici e commerciali di cui godono invece paesi come Stati Uniti, Unione Europea e Russia.
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Biden sta tentando di gestire le relazioni piuttosto tese con Pechino, ereditate anche dall’amministrazione precedente, mentre la Cina si sente messa sotto pressione dagli osservatori internazionali e in generale dalle democrazie occidentali. Le motivazioni sono molteplici.
Prima fra tutte la violazione dei diritti umani di alcune minoranze religiose all’interno del paese, che hanno ottenuto risposte piuttosto contrariate e causato una serie di boicottaggi di aziende occidentali, schierate in passato contro l’abuso di potere dello stato centrale. Aggiungendo a questo scenario la libertà politica di Honk Hong, le cui proteste contro le modifiche della sua legislazione e del sistema elettorale in senso autoritario, sono risultate completamente ignorate e represse.
Alcune tensioni si sono già scontate sull’economia anche in questa amministrazione, con il presidente Joe Biden intenzionato a impedire l’afflusso di capitali verso le aziende che operano negli Stati Uniti, collegate secondo l’intelligence all’esercito del Partito Comunista Cinese.
Sono state già diverse le perdite per le aziende cinesi quotate sui listini USA. Alla notizia, Baidu ha perso il 2.8% seguita da Alibaba Group e Tencent che hanno perso rispettivamente 1,7% e 1,2%. Altre società quotate come China Mobile, China Telecom e China Unicom Hong Kong, tutte facenti capo a operatori telefonici e tutte accusate di mettere in pericolo la sicurezza nazionale, dovranno invece essere rimosse definitivamente dai listini.
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