Arrivederci mondo del lavoro, ci si vede a fine mese: pensioni flessibili a 62 anni, nessuno scherzo, ma un’occasione da non perdere.
Quanti vorrebbero terminare la propria carriera lavorativa senza impazzire? Tanti, ma è una concezione ormai diffusa che il sistema previdenziale italiano sia in crisi. Come dare torto a ciò, se nella maggior parte dei casi la burocrazia affonda la possibilità di concludere dignitosamente? Significa voler a tutti i costi pensioni flessibili a 62 anni. Non a 70 quando ormai non si sta più in piedi, e si continua a lavorare in condizioni poco consone. Fortunatamente, tra una falla ed un ostacolo, ci sono delle buone nuove che non bisogna lasciarsi scappare per nessuna ragione al mondo.
Che si ricerchi una riforma previdenziale non è una fake news, né tantomeno una questione non ancora discussa. Se ne parla molto, perché in tema pensioni, c’è molto che non va, e a farne le spese sono i cittadini che non riescono a stare al passo con il sistema e la stessa quotidianità. È necessario avere dalla propria delle risorse adeguate, soprattutto in vista del suddetto cambiamento, ma senza una rivoluzione, è comunque possibile avere un briciolo di soddisfazione al termine della carriera?
Possibilità, occasioni ed analisi del sistema, com’è e come dovrebbe essere sono i punti chiave che meritano un’adeguata attenzione. Il tutto verte attorno ad una mancanza di flessibilità, ma cosa implica? È proprio dietro la condizione in questione che si cerca di porre un punto, non di “arrivo”, come si potrebbe banalmente pensare, ma di “partenza”. Partire con pensioni più flessibili, un sogno o un caso concreto?
La richiesta di flessibilità significa chiedere dei requisiti e delle condizioni previdenziali meno rigide. Il sistema italiano è in todo molto rigido, e proprio per questa caratteristica ormai presente da molto tempo, le falle di un sistema che non va, sono sempre più contradditorie rispetto la realtà vissuta. Ci vorrebbe più libertà nella scelta del pensionamento, e davanti quota 100, 103 e 102, si parla davvero di ciò?
La flessibilità di cui tanto si parla implica che è il lavoratore a decidere quando andare in pensione, non le dinamiche del sistema. Per intenderci, se un cittadino ha 62 anni e 30 di contributi, non 41 come vorrebbe la Quota 103, pur essendo questa quella che fa al caso suo, non può andare in pensione. Sollevato il problema, come si può consolidare una minor rigidità con queste basi? È comunque un’impostazione molto limitata, e ciò causa malcontento e tensioni al termine della carriera, quando tutto invece dovrebbe essere più “facile”. Non è agli inizi che si fa gavetta?
L’obiettivo della Riforma previdenziale dovrebbe permettere ai cittadini di terminare la carriera a 62 anni con 20 di contributi. Il punto è che nonostante sia questa la miglior previsione per il Paese, non è attuabile. La ragione? Sempre la stessa: mancanza di risorse! I sindacati però stanno battendo ferro e fuoco per consolidare questa possibilità.
Il sistema contributivo degli altri Paesi permette al singolo di andare in pensione quando vuole. Certamente, meno contributi ci sono, minore è il compenso, ma in Italia pare che se si va prima o dopo, comunque ci sono degli svantaggi. Complici i coefficienti di trasformazione che sono del tutto anacronistici rispetto le esigenze odierne.
Attualmente, la Quota 103 ha il titolo di “pensionamento più flessibile”, perché permette di pensionarsi a 62 anni con 41 di contributi, ma se non si matura quanto richiesto, si dovrà comunque aspettare. Che flessibilità è questa? Limitatissima! Leggermente meglio era il pensionamento con Quota 100 e 102, poiché prevedevano circa 38 anni di contributi, ad un età di 62/64.
Ad oggi, si attende una riforma nei termini sopraindicati, la quale incarnerebbe la soluzione migliore per la maggior parte della collettività in età da pensionamento.
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