Interpretare una normativa in modo errato è più facile di quanto si pensi. E la Legge 104 non fa eccezione, specie per quanto riguarda i permessi.
Nonostante figuri fra le principali normative di tutela al cittadino (chiaramente con riferimento a dei casi specifici), il confine fra cosa si possa effettivamente fare e cosa no con la Legge 104 è piuttosto labile.
Non è un caso che, in passato, per dirimere le questioni sorte in merito sia dovuta intervenire la Corte di Cassazione. L’obiettivo è stato quello di determinare fin dove, effettivamente, si estendeva il ventaglio dei diritti concessi dalla legge-indennità destinata alle persone che soffrono di disabilità e a coloro che li assistono. Niente di particolarmente strano. E’ proprio di parecchie normative, infatti, il fatto di presentare alcuni punti non particolarmente chiari, quindi con possibilità di interpretazione errata sia da parte del fruitore che da parte dell’ente che eroga le indennità connesse. Per quanto sia inquadrabile nelle principali prestazioni fornite tramite Legge 104, i punti oscuri riguardano proprio la questione permessi. Ossia, la possibilità concessa ai familiari che svolgono la funzione di assistenza di assentarsi dal lavoro mantenendo la retribuzione.
Il problema in realtà è molto semplice, almeno nella sua natura. Meno per quanto riguarda la risoluzione. I permessi in questione, infatti, non sono definiti temporalmente. O meglio, non è stabilito in modo chiaro quanto tempo il caregiver debba effettivamente occuparsi del proprio congiunto (un’ora, cinque ore o magari tutta la giornata). Una situazione apparentemente risolvibile ma che, in realtà, in passato ha dato adito a numerose cause giudiziarie che, nei casi peggiori, si sono concluse con dei licenziamenti. Stesso discorso per la questione del preavviso, utile per allertare per tempo il datore di lavoro circa la necessità del permesso. Il Ministero del Lavoro ha provato a risolvere il problema facendo appello alla collaborazione reciproca.
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Per quanto riguarda i permessi in sé, le regole naturalmente ci sono: possono essere richiesti infatti qualora vi sia in famiglia un componente con disabilità grave (art. 3, comma 4 della Legge 104). Oppure quando la persona disabile assistita non è ricoverata in una struttura adibita a tempo pieno. Inoltre, per poter richiedere i permessi, è necessario essere lavoratori dipendenti. Come ha chiarito anche la Cassazione, i permessi concessi per 104 sono compatibili anche per lo svolgimento di attività personali. La condizione, però, è che parte (o maggior parte) della giornata sia destinata all’assistenza del familiare disabile. In pratica, svolta l’assistenza necessaria, il dipendente può impiegare il resto del permesso per svolgere altre attività, magari pagare le bollette o fare la spesa. Questo vale sempre, anche se l’assistenza necessaria al disabile non fosse continuativa.
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Come si può capire, un passaggio piuttosto ambivalente. Ad esempio, la Cassazione ha assolto in passato un lavoratore denunciato per aver svolto delle commissioni personali. Fatte però dopo aver assistito il familiare disabile per più ore di quelle previste dall’orario di lavoro ordinario. Più sottile la questione dei permessi orari. Qualora a fronte di un’eventuale verifica il dipendente risulti fuori casa mentre beneficia di un permesso di una o due ore, il rischio di incappare in una denuncia è assai alto. Ricordiamo che i controlli possono essere disposti sia dall’Inps che dal datore di lavoro stesso. Addirittura, si può far ricorso a delle agenzie di investigazione, a patto che queste si muovano entro i limiti della legge 300/1970, sulla tutela della libertà del lavoratore.
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