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Lavorava troppo lentamente: la Cassazione dice che il licenziamento è giusto

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Cosa succede se ti muovi con troppa calma in ufficio? È davvero possibile perdere il lavoro solo perché non vai “al ritmo degli altri”? C’è una storia che potrebbe far riflettere molti.

Quella di Giuseppe, uno che si è sempre considerato un lavoratore tranquillo… forse troppo. Non faceva errori, non litigava con nessuno, eppure si è ritrovato licenziato. Il motivo? Una parola che fa più paura di quanto sembri: “scarso rendimento”. E quello che ha scoperto dopo lo ha spiazzato.

La pausa sul lavoro è un diritto, ma non senza limiti-trading.it

Giuseppe, da anni in azienda, era famoso per la sua calma olimpica. Sempre presente, sempre silenzioso. Ma anche sempre lentissimo. Nessuno lo odiava, ma nemmeno lo prendevano sul serio. I colleghi lo chiamavano “il moscione”, il capo lo sopportava. Fino al giorno in cui non lo ha più fatto.

Il licenziamento è arrivato quasi dal nulla. “Scarso rendimento”, recitava la motivazione. Giuseppe, inizialmente incredulo, ha pensato a un errore. Ma poi, parlando con un amico, ha scoperto qualcosa che non sapeva: una sentenza recente della Cassazione (ordinanza n. 10640/2024) ha chiarito che, in certi casi, un rendimento troppo basso può giustificare il licenziamento.

Quando la lentezza diventa un problema (anche legale)

Secondo la Corte, il lavoratore non è obbligato a raggiungere un risultato, ma deve comunque impegnarsi al massimo. È tenuto a mettere a disposizione le proprie capacità, energia e attenzione nel rispetto dei tempi e dei modi previsti dal contratto.

Quando la lentezza diventa un problema (anche legale)-trading.it

Finché si lavora con la giusta diligenza , nessuno può pretendere l’impossibile. Ma se la prestazione è lontana dagli standard medi richiesti per quel ruolo, e questo è dimostrabile, allora si può parlare di inadempimento . E in quel caso, il licenziamento è legittimo.

La Cassazione distingue bene le situazioni: se la scarsa produttività dipende da motivi oggettivi, come una malattia o l’organizzazione del lavoro, il lavoratore è tutelato. Ma se la colpa è sua, se è solo “poco volenteroso”, allora il contratto può essere risolto.

Nel caso di Giuseppe, il datore ha dimostrato che il suo rendimento era molto inferiore a quello dei colleghi con lo stesso incarico. Non c’erano problemi di salute, né incarichi più difficili: semplicemente, non si impegnava abbastanza.

Il lavoro non è solo presenza: conta anche il come

Questa storia insegna una cosa semplice ma spesso sottovalutata: essere presenti non basta. Se manca l’impegno, la costanza, la voglia di fare bene, si rischia sul serio. Non servire fare errori grossolani per finire nei guai. Basta restare troppo indietro rispetto a ciò che ci si aspetta.

Forse Giuseppe non è l’unico a lavorare così. La vera domanda è: quanti altri stanno rischiando il posto, senza nemmeno saperlo?

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