Una congiuntura tra due fattori concomitanti sembra mettere in serio pericolo il risparmio e il potere d’acquisto dei cittadini.
La preoccupazione è per la situazione economica, l’assenza di punti di riferimento duraturi e la volontà politica prima che economica, di uscire dalla crisi per mezzo degli stimoli monetari e fiscali. L’inflazione può diventare uno di quei fattori a causa del quale si può subire proprio quello che si vorrebbe evitare, ovvero l’erosione del potere d’acquisto e la capacità di spesa, che una certa somma di denaro può garantire rispetto a un bene o un servizio.
Nonostante le rassicurazioni da parte delle istituzioni finanziarie come la banca centrale degli Stati Uniti, l’inflazione, fonte di preoccupazione tra gli investitori, può diventare ancora più deleteria per tutti coloro che hanno lasciato i propri risparmi disinvestiti.
Coloro che non hanno avuto modo di approfittare dell’effetto sul breve termine della ripresa generale dei mercati azionari, possono ora limitarsi a sperare che i propri risparmi e il proprio potere d’acquisto non vengano eccessivamente erosi dalle stesse soluzioni messe in atto per risanare l’economia. A questo punto è in gioco la tenuta del sistema già provato da due pesantissime crisi economiche e finanziarie avvenute in poco più di un decennio.
Nessuno mette in discussione il fatto che i governi e le banche centrali debbano intervenire a sostegno delle imprese e dei lavoratori in un momento così difficile. Ma la ripresa dell’economia sembra non essere così scontata. Al momento non ci sono soluzioni alternative alle politiche monetarie adottate, ma messe in atto per la prima volta a livello globale nello stesso arco temporale, possono diventare sul medio termine piuttosto rischiose.
Il rischio di una ripresa dell’inflazione c’è. Un eccessivo stimolo monetario e fiscale e una debole resistenza politica alla minaccia inflattiva possono avere un effetto negativo sui bilanci delle banche centrali. Senza nessuna possibilità realistica di un aumento delle tasse, non esiste possibilità di correzione del mercato che non sia frutto di un incremento sostanziale dei prezzi per beni e servizi.
L’aumento della spesa pubblica sta infatti venendo finanziato non dalle tasse, che anzi almeno in Italia potrebbero venire ridotte, ma dalla creazione di moneta da parte della BCE, tanto che negli ultimi quattro mesi e mezzo il suo bilancio è aumentato del 56% passando da 5.000 a 7.900 miliardi di euro. La stessa dinamica è avvenuta per la Federal Reserve che ha addirittura raddoppiato le sue uscite. Negli Stati Uniti il tasso d’inflazione di aprile su base annua è stato del 3,1%. Molto al di sopra degli obbiettivi stabiliti dalla Fed al 2%, che ha giustificato l’incremento come transitorio e non sistemico, con un’aspettativa di un ritorno a valori accettabili entro sei mesi. Se la Fed non dovesse avere ragione, il resto dell’Europa che ha adottato le stessa politica monetaria non rimarrà senza conseguenze.
Sul breve termine gli effetti sui mercati finanziari di una prosecuzione delle rilevazioni negative sull’inflazione, segnalati ad esempio dai prezzi dei beni al consumo si sconteranno innanzitutto con aumento dei tassi d’interesse o una riduzione degli acquisti atti a iniettare liquidità e sostenere la spesa pubblica. Se i sostegni fiscali, che sono effettuati contestualmente ai loro effetti sui livelli di crescita e ai livelli occupazionali decadranno, ci sarà un contestuale rallentamento sulla crescita economica, questo potrà riportare le valute dei paesi interessati a un improvviso apprezzamento.
Negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha indicato a giugno la volontà di cominciare a discutere di tapering, che consiste al contrario del quantitative easing, nel rallentamento da parte della banca centrale, nel ritmo di acquisto di asset tra i quali principalmente i titoli di Stato. Si prevede che questo potrà avvenire nelle maggiori economie a partire dal 2023. A partire dal prossimo anno se l’inflazione dovrà venire messa sotto controllo da una modifica delle politiche fiscali e monetarie, anche la crescita economica avrà un rallentamento contestuale. Dal punto di vista della gestione del portafoglio questo significa che fino ad allora gli investimenti, come azioni e credito, possono ancora risultare remunerativi e offrire rendimenti relativamente interessanti.
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Se il peggio la pandemia come sembra, fosse alle nostre spalle, dopo il picco di quest’anno, i tassi di crescita dei mercati torneranno vicini ai livelli precedenti, sostenuti dalla domanda inespressa e dagli alti livelli di risparmio dei consumatori, non che dagli investimenti pubblici che costituiscono un elemento in grado di garantire la prosecuzione di alti tassi di crescita almeno fino al 2023.
Dal punto di vista delle economie nazionali, i singoli governi potrebbero spingere politiche atte ad accorciare la filiera produttiva, garantendosi l’approvvigionamento di tutte quei beni come le materie prime, che in questo momento costituiscono un fattore di rischio sistemico per la prosecuzione dei normali ritmi produttivi demandando questa capacità al commercio dato dai rapporti internazionali, che sembrano ora mutare dividendo il mercato globale in blocchi, in cui l’occidente rappresentato da Europa e Stati Uniti, sembra allontanarsi dalle strategie economiche politiche della Cina e per quanto riguarda gli Stati Uniti dalla Russia.
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