Il Bitcoin non è assimilabile a una valuta estera né a una moneta a corso legale, ma è più simile a una commodity a metà tra un metallo prezioso e un servizio digitale, per il quale il nostro ordinamento non è preparato.
In Italia pur non esistendo disposizioni fiscali specifiche in materia di criptovalute, esse sono state fatte rientrare in norme di principio che accomunano i guadagni ottenuti dal Bitcoin alle tipologie di introiti sui quali occorre pagare le imposte sui redditi, come quelle che regolano i guadagni derivati da plusvalenze.
Infatti esse seguono comunque le stesse regole cui è soggetta la detenzione di valuta. Tuttavia la differenza soprattutto dal punto di vista pratico non è trascurabile, infatti per esempio, se possiedo diecimila dollari o sterline, esse mi danno diritto, nei paesi in cui queste valute hanno corso legale, a essere accettate come mezzo di pagamento. Diversamente se ho un Bitcoin o una sua frazione, a prescindere da quanto esso valga, non avendo corso legale, non ho nessuna garanzia di vedermi restituito un controvalore o l’estinzione di un debito, né di poterlo convertire, perché nessuno ha l’obbligo di accettarli come mezzo di pagamento né di accettarne il valore.
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Già nell’ottobre del 2015 la Corte di Giustizia Europea si era espressa in materia, con una sentenza che rendeva i Bitcoin e quindi l’imposizione fiscale sul loro valore, non assimilabile a quello delle valute tradizionali.
Le criptovalute come il Bitcoin sono state concepite come un mezzo di pagamento anonimo, in grado di sfuggire ai regolamenti vigenti. Esse possono prestarsi a una molteplicità di scopi, il cui impatto economico e finanziario è difficilmente definibile.
L’Agenzia delle Entrate ha comunque tentato di porre dei limiti alla vaghezza della loro natura, disciplinando il Bitcoin sia per quanto riguarda la detenzione presso un exchange, sia in forma fisica in un hardware.
Il wallet se detenuto presso un exchange o servizio online è a tutti gli effetti equiparato a un conto corrente, se quindi la sua sede è collocabile all’estero e supera valori minimi previsti dalla normativa, pari a 5.000 euro, per il contribuente scatta l’obbligo di dichiarazione dell’ IVAFE, l’imposta patrimoniale sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero.
Quando invece parliamo di un wallet offline oppure hardware, il cui possesso è strettamente nelle mani del detentore della criptovaluta, si considera quel conto come detenuto in Italia e viene meno l’obbligo di monitoraggio da parte del fisco e quindi di dichiarazione.
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Se invece la somma del valore del Bitcoin dovesse superare i 51.000 euro per sette giorni consecutivi nell’arco dell’anno, scatta l’obbligo di compilazione del quadro RW del Modello Unico Persone Fisiche, con un’imposta sulle plusvalenze pari al 26% della somma rilevata nel momento in cui questa viene effettivamente ottenuta, per esempio nel momento in cui il Bitcoin viene venduto e convertito in valuta tradizionale. Diverso è il caso in cui facessimo trading sul Bitcoin per esempio con l’acquisto o la vendita di un titolo finanziario legato al suo valore come ad esempio CFD su Bitcoin/USD. Tali operazioni sono soggette alla tassazione del 26% sulle plusvalenze, al netto delle minusvalenze incorse nell’anno di riferimento.
A ogni modo a causa delle incertezze normative e lo sviluppo che il suo valore d’uso potrà avere nella nostra società, le regole fiscali appena abbozzate nella normativa italiana, potrebbero essere nei prossimi anni pesantemente rivedute e così anche la disciplina in materia di possesso delle stesse criptovalute, al momento completamente assente.
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