Una recente decisione della Corte di Cassazione – Sentenza n. 396/2024 – insieme all’ordinanza della Cassazione civile, Sezione Lavoro, n. 4741 del 23 febbraio 2025, potrebbe segnare un cambiamento decisivo. Eugenio, appena uscito di prigione, si trova di fronte a un’opportunità che non avrebbe mai immaginato. Questa volta, però, non si tratta di promesse vane né di ostacoli burocratici: è qualcosa di concreto.
C’è una decisione ufficiale, nero su bianco, che fa parlare anche chi non ha mai prestato attenzione a certi temi. Ecco cosa sta succedendo e potrebbe riguardare più persone di quanto credi.

Per molti, uscire dal carcere significa dover ricominciare tutto da capo, spesso senza un soldo, senza una rete di supporto e con il peso di un passato difficile da scrollarsi di dosso. È come partire da una linea di partenza diversa da quella di chiunque altro, più indietro, più in salita. Eugenio lo sa bene. Ha scontato la sua pena, si è comportato bene, ha lavorato duramente durante la detenzione. E ora, mentre cerca di riprendersi un pezzo di normalità, gli assistenti sociali gli parlano di alcune sentenze che potrebbero cambiare radicalmente le cose per lui.
All’inizio pensa a uno scherzo. Poi legge con attenzione, parola dopo parola. Non si tratta di promesse vaghe o buoni propositi, ma di un riconoscimento concreto: il lavoro svolto in carcere non è più invisibile. Non è solo un modo per “passare il tempo” o “mostrare buona volontà”. Ora può valere qualcosa, anche fuori. Eugenio, confuso ma anche incuriosito, si trova davanti a una domanda che non si era mai posto prima: “E se avessi diritto anch’io a qualcosa che mi aiuti davvero a ripartire?”
Il lavoro in carcere vale davvero come quello fuori?
Per anni, chi lavorava in carcere veniva visto come un “fortunato”: almeno aveva qualcosa da fare, un po’ di soldi per le piccole spese interne. Ma fuori, quel “contratto di lavoro a tempo determinato” era carta straccia. Nessun diritto, nessuna protezione.

Oggi, grazie ad alcune sentenze, le cose iniziano a cambiare. Il giudice ha riconosciuto che quel lavoro, svolto tra le mura di un penitenziario, non è diverso da un impiego normale. Ha equiparato il lavoro penitenziario a quello ordinario, stabilendo che negare il diritto alla NASpI sarebbe una forma di discriminazione inaccettabile.
Eugenio ha lavorato per mesi in lavanderia. Turni lunghi, regole rigide, responsabilità vere. Non era un passatempo: era un impiego con tutte le difficoltà di un lavoro esterno. Ora, grazie a questa nuova interpretazione della legge, quel periodo ha un valore reale. Potrebbe significare un sostegno economico per alcuni mesi, giusto il tempo per trovare una nuova occupazione, per pagare un affitto, per non ricadere in situazioni disperate.
Le sentenza e l’ordinanza non riguardano solo lui. Potenzialmente, può riguardare centinaia di ex detenuti che hanno prestato servizio durante la loro pena. E il messaggio è potente: la reintegrazione passa anche dal riconoscere il valore del lavoro svolto, ovunque esso sia stato fatto.
Una possibilità concreta di ripartenza
Quando Eugenio esce dall’ufficio degli assistenti sociali, ha ancora mille pensieri in testa. Ma uno, più forte degli altri, si fa strada: “Per una volta, il sistema non mi sta chiudendo una porta in faccia.” L’idea di poter accedere alla NASpI, quel sussidio che fino a ieri sembrava un privilegio riservato a chi ha un passato “pulito”, ora è concreta. E non si tratta di un regalo: è il riconoscimento di un diritto.

Questa sentenze mandano un segnale importante. Non si reinserisce davvero una persona se non si dà valore a ciò che ha fatto per cambiare. E il reinserimento sociale dei detenuti non può essere solo un obiettivo teorico. Deve passare da strumenti pratici, da decisioni giudiziarie coraggiose come questa, capaci di creare precedenti, di spostare il baricentro della giustizia verso l’inclusione.
Ora Eugenio può presentare domanda per la NASpI. Non è detto che tutto andrà liscio, la burocrazia è sempre una sfida, ma stavolta c’è una base solida su cui contare. E forse, per la prima volta da anni, si sente trattato come una persona, non come un problema.
Riepilogo
Sentenza n. 396/2024 – 5 gennaio 2024
La Corte di Cassazione ha stabilito che il lavoro svolto dai detenuti all’interno del carcere, quando prestano servizio per l’amministrazione penitenziaria, è assimilabile a un normale rapporto di lavoro subordinato. Di conseguenza, anche i detenuti hanno diritto alla tutela previdenziale, inclusa l’indennità di disoccupazione NASpI, purché siano soddisfatti i requisiti contributivi previsti dalla legge .
In particolare, la Corte ha riconosciuto che la cessazione del rapporto di lavoro dovuta alla liberazione del detenuto (fine pena) configura una situazione di disoccupazione involontaria, rendendo pertanto il lavoratore detenuto idoneo a ricevere la NASpI .
Ordinanza n. 4741 – 23 febbraio 2025
Con questa ordinanza, la Corte di Cassazione ha confermato quanto stabilito nella precedente sentenza, estendendo il principio anche ai casi in cui il lavoro in carcere termini per la scadenza di un contratto a termine, come quelli legati a progetti temporanei finanziati da fondi speciali (es. “Cassa Ammende”). Anche in tali circostanze, la cessazione del rapporto è considerata involontaria, e il detenuto ha diritto alla NASpI se possiede i requisiti richiesti.