Le economie europee vogliono arrivare al vertice del G20 che si terrà venerdì 9 luglio, con una stesura quasi completa di quelle che saranno le idee da portare sul tavolo, per essere approvate in ambito internazionale. L’accordo mira ad aiutare i governi a finanziare le loro economie in un momento di impennata della spesa pubblica legata alla crisi sanitaria, impedendo che le aziende possano trovare un territorio disposto a concedergli un vantaggio fiscale.
Una consultazione tra 130 paesi nel mondo conferma l’intenzione e la fattibilità di un’imposta minima globale, con un aliquota che possa agevolare quante più economie possibili, nella speranza di una sua approvazione al G20 che si terrà a Venezia.
Gli Stati Uniti sono tra i paesi che hanno voluto imprimere una accelerazione alla proposta, avanzata in origine proprio da un documento diffuso dall’attuale segretario del Tesoro USA Janet Yellen, che potrebbe segnare una svolta storica nei rapporti internazionali, creando per la prima volta un unico sistema fiscale concepito su scala mondiale.
Gli Stati Uniti credono fermamente che l’aliquota minima sulle multinazionali possa rendere l’America più competitiva, mettendola in grado di tassare i giganti del web come Google, Facebook e alcuni dipartimenti Amazon, come Amazon Web Services.
Per decenni la competizione internazionale sul piano fiscale è andata a tutto vantaggio delle aziende che hanno potuto delocalizzare le proprie sedi fiscali, in un circolo vizioso di offerte a ribasso. Alcune volte il fenomeno è avvenuto all’interno delle stesse nazioni come gli stati USA, in grado di concedere discrezionalmente vantaggi fiscali alle aziende che operano nel Paese.
Il risultato è stata una corsa globale a cui gli stati del mondo non hanno più intenzione di partecipare e che in particolare negli Stati Uniti ha determinato negli anni una delocalizzazione della produzione mettendo in crisi molte aree rurali, alimentato i nazionalismi e la sensazione della decadenza del Paese, che ha avvantaggiato quei candidati come Trump, la cui campagna elettorale è stata vinta facendo leva sul risentimento e sul populismo in parte determinato da questo fenomeno.
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L’osservatorio fiscale europeo, l’organismo inaugurato il primo giugno al fine di offrire una consulenza al parlamento europeo in materia di elusione e di pianificazione fiscale, stima che il gettito fiscale per l’Italia con una tassazione vicina al 15% si attesterebbe a 2,7 miliardi di euro all’anno, mentre con una tassazione al 21% salirebbe a 7,6 miliardi. Secondo l’OCSE, l’elusione delle imposte patrimoniali delle grandi multinazionali arriva a 240 miliardi di dollari pari almeno al 10% delle imposte sui redditi, che con un accordo sul piano internazionale costituirebbero crediti riemersi a tutto vantaggio delle casse Statali.
L’importanza del nuovo accordo è evidente nelle stime che indicano il recupero di 40 miliardi di euro soltanto per l’Europa. Le nazioni più avvantaggiate sembrerebbero quelle dell’eurozona, prime fra tutte il Belgio che potrà avvantaggiarsi a prescindere dall’aliquota di base che verrà decisa. Al secondo e terzo posto con un aliquota fiscale al 15% ci sono Francia e Italia, diversamente con un aliquota al 21% agli stessi posti sarebbero occupati da Francia e Spagna, mentre al 25% da Germania e Spagna.
I passi avanti fatti rispetto agli inizi di giugno sono la novità del coinvolgimento nell’iniziativa di Cina e India, che si dicono d’accordo sull’applicazione della misura anche nelle rispettive legislazioni. Se un’intesa dovrà essere stabilita in modo definitivo questa comincerà con lo stabilire la tabella di marcia per l’entrata in vigore della misura prospettata a partire dal 2023.
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Una tra le critiche possibili che potrebbe portare una modifica all’aliquota proposta è quella del rischio che un livello troppo alto rischierebbe comunque di incentivare le aziende a spostare le proprie sedi fiscali alla ricerca di un paese che non aderisce all’iniziativa. Viceversa è possibile che i paesi con un’aliquota già ora più bassa del 15% possano rifiutare l’adesione in quanto perderebbero il proprio vantaggio con le relative conseguenze economiche.
I Paesi stabiliranno quindi un livello congruo atto a conciliare il maggior numero di imposizioni fiscali, in modo da includere il minimo numero di paesi con un aliquota fiscale minore dell’aliquota minima globale. Se questa fosse al 15% verrebbero esclusi dall’Europa continentale soltanto due paesi, Irlanda e Ungheria. Diversamente qualsiasi aliquota più alta causerebbe un aumento del numero di nazioni in grado di uscire in futuro dall’accordo per esempio a causa di mutamenti politici, mettendo così a rischio la sua tenuta.
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In vista di un prossimo accordo gli Stati Uniti hanno chiesto all’Unione Europea di rivedere la propria tassazione sulle multinazionali tecnologiche, al fine di sostituirla e includerla con l’aliquota minima globale. I ventisette paesi dovranno impedire che l’accordo per la digital tax possa eccessivamente penalizzare le aziende USA, tra le prime a essere interessate sul territorio dall’imposizione fiscale.
Il presidente Biden ha intenzione di convincere il senato USA, che dovrebbe approvare con una maggioranza di almeno due terzi una legislazione che incide sugli accordi internazionali, di cui la aliquota minima globale, mettendo in evidenza i vantaggi per la nazione di un accordo con l’Europa, sostituendo questa alla digital tax, seriamente penalizzante per una parte importante dell’economia USA.
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Attualmente negli Stati Uniti le tasse federali prevedono un‘aliquota media del 21% fino a un massimo del 25,7% se considerate insieme a quelle dei singoli Stati. Per avere un termine di paragone, l’Italia da tutti considerata uno dei paesi con la più alta pressione fiscale è l’ottava nel mondo, con imposizione che non si discosta eccessivamente da quella USA. Considerando l’insieme tasse regionali e quelle nazionali è pari infatti al 27,8%.
Anche la distribuzione della pressione fiscale è ampiamente a sfavore della percentuale più ricca della popolazione. Nel quinquennio dal 2015 al 2020 il 50% dei contribuenti americani più poveri, escludendo le differenze nelle tasse locali, ha contribuito ad appena il 2,83% del totale degli incassi per il fisco USA. Chi ha contribuito di più è appena 1% più ricco della popolazione che ha pagato il 39,04% delle tasse federali. Sembra proprio quindi che i più ricchi nel Paese paghino molte più tasse della restante parte, con buona pace dell’immaginaria libertà sulle imposte patrimoniali negli USA.
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