Ebrahim Raisi, ultraconservatore, si è aggiudicato la presidenza iraniana con il 61,9% delle preferenze. La sua linea politica è espressione di una democrazia illiberale e fortemente repressiva, sconterà i suoi effetti sugli accordi con gli Stati Uniti e di conseguenza sul prezzo del petrolio.
Venerdì 18 giugno gli iraniani hanno votato alle elezioni presidenziali: il risultato elettorale arrivato sabato pomeriggio, evidenzia una situazione di estrema chiusura e linearità nelle politiche conservative dell’Iran.
L’esito politico potrebbe complicare notevolmente le trattative con gli Stati Uniti al fine di ridurre o eliminare le sanzioni imposte al Paese, a causa della violazione degli accordi sul nucleare. Le trattative portate avanti a partire dal 15 maggio, avrebbero potuto aumentare l’emissione di nuovi quantitativi di greggio sul mercato, in cambio dell’annullamento delle sanzioni economiche. Nonostante il nuovo flusso produttivo verrebbe scontato lentamente sulle quotazioni dell’oro nero, si potrebbero comunque avere dei benefici sul breve termine, data la chiusura delle posizioni speculative dovute all’improbabilità di ulteriori rialzi di prezzo.
Il petrolio ha chiuso nell’ultima seduta a 73,19 dollari al barile. Sul suo prezzo sono state scontate in convergenza la stretta produttiva dei paesi OPEC e la una ripresa dei consumi energetici a livello internazionale, dovuti alla ripresa delle economie, dei viaggi e degli spostamenti della stagione turistica, sia negli Stati Uniti e in parte anche in Europa.
Fino a ieri le strategie politiche del presidente uscente, erano quelle di utilizzare gli investimenti stranieri al fine di migliorare le infrastrutture del paese, contribuendo alla sua popolarità presso l’opinione pubblica, in concomitanza alla volontà di riportare la posizione dell’Iran a quella di massimo esportatore di petrolio tra i paesi OPEC.
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Per questo motivo il fallimento delle conclusioni nelle trattative con gli USA, particolarmente facilitate dagli obbiettivi strategici iraniani, oltre a contribuire potenzialmente nella crescita dell’inflazione e il conseguente rallentamento della ripresa economica, porteranno non pochi problemi anche dal punto di vista geopolitico, in quanto il nuovo governo, orientato a una maggiore indipendenza dal controllo di Washington tenterà in tutti i modi di portare avanti il suo programma di arricchimento dell’uranio, fino ai livelli necessari a ottenere un’arma nucleare. A questo proposito Joe Biden a partire dai primi giorni di giugno, ha deciso di segnare un ulteriore passo avanti nell’indipendenza dall’uso del petrolio e nel processo di decarbonizzazione dell’economia americana. Il Presidente degli Stati Uniti ha infatti bloccato i contratti di estrazione in Alaska, sospendendo di fatto le trivellazioni petrolifere che avvenivano nell’estremo nord est del Paese.
In un modo o nell’altro il destino del petrolio avrà importanti ricadute su settori strategici per l’economia e l’industria, con energia, trasporti, edilizia che subiranno sul breve termine gli effetti negativi compensati dai benefici a lungo termine per l’ambiente, dal nuovo trend ecologista che porterà le nazioni industrializzate a dimezzare le emissioni entro i prossimi dieci anni, annullandole completamente entro il 2050.
L’area di estrazione dell’Alaska è anche un simbolo dello sfruttamento ambientale, si tratta infatti di un parco naturale rimasto inviolato dalla fine degli anni ’80. L’interno dell’area naturale custodirebbe un vero tesoro, con un giacimento pari a undici miliardi di barili di petrolio. A dispetto dell’impegno ad aumentare l’uso e lo sfruttamento dei carburanti fossili e dei giacimenti del paese, voluta dall’amministrazione Trump all’insegna della sicurezza energetica USA, l’amministrazione Biden ha optato a questo stesso scopo a una strategia basata sulla diversificazione energetica, cominciando fin da subito a incentivare il settore delle rinnovabili al fine di ottimizzare il rendimento e le nuove tecnologie per garantire un futuro di totale indipendenza energetica.
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A rispondere alla domanda ci aveva pensato già nel 2016 il visionario Elon Musk, sostenendo che sarebbero state sufficienti 100 gigafactory, fabbriche di batterie elettriche che dovrebbero alimentarsi a loro volta da energia solare. Ultimamente a confermare la previsione con un preciso modello matematico è stata anche l’università LUT finlandese che dimostra la possibilità di raggiungere l’indipendenza energetica con l’uso delle rinnovabili, costruendo impianti per la costruzione di pannelli fotovoltaici, necessari a sostenere la domanda per il 69% dell’energia globale, compensata per il restante 31% da quella eolica, idroelettrica, geotermica e quella proveniente dal recupero dei rifiuti e delle biomasse.
Se si volesse raggiungere questo scenario entro il 2035, si dovrebbero costruire e rendere operative 100 gigafactory da 60 GW ciascuna, per un totale di 60.000 GW in tutto il mondo. Con la ricerca nel settore spinta dalla competizione internazionale nel settore, la tecnologia fotovoltaica sta diventando sempre più conveniente di anno in anno. Il leader nella costruzione di moduli fotovoltaici è attualmente la Cina che sta ultimando la costruzione della più grande fabbrica al mondo, la quale avrà una capacità produttiva di 60 GW all’anno. Per avere un termine di paragone, fino al 2020 la capacità di produzione di sistemi fotovoltaici a livello globale era di circa 200 GW all’anno.
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