Credere che la Cina diventasse in modo graduale e pacifico un interlocutore prono alle politiche occidentali, è stata un’illusione. La pandemia ci ha fatto ricredere.
Per capire quanto le decisioni cinesi possano influenzare oggi l’economia globale, bisogna tornare indietro agli anni Duemila, quando per il volere dell’allora presidente USA Bill Clinton, la Cina è diventata membro dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO). L’amministrazione americana prospettava un avvicinamento strategico agli standard occidentali, per quello che allora era ancora un paese in via di sviluppo, ma che inevitabilmente sarebbe cresciuto e divenuto presto o tardi indipendente e capace di fare per suo conto i propri interessi.
La Cina, in cambio del vantaggio commerciale, avrebbe dovuto agire nel rispetto dei diritti umani, consentendo libertà di pensiero e di culto e garantendo condizioni dignitose ai lavoratori. A questo, ovviamente, si aggiungevano anche gli interessi strettamente economici degli Stati Uniti, che grazie all’accordo avrebbero evitato ad esempio l’afflusso nel mercato americano di beni eccessivamente concorrenziali, nonché la possibilità di sfruttare progressivamente l’inevitabile crescita della domanda interna cinese, avvicinandola indirettamente allo stile di vita americano.
Nel suo discorso di ringraziamento per l’accordo tra i due paesi il presidente degli stati uniti si chiedeva:
“Durante la Seconda guerra mondiale la Cina era nostro alleato, durante la guerra di Corea era nostro avversario, verso la fine della guerra fredda […] rappresentava un grande rompicapo nello scenario internazionale. Essa sarà in futuro la prossima grande tigre capitalista, rappresentante del più grande mercato al mondo, oppure l’ultimo più grande drago comunista rappresentando una minaccia per la stabilità dell’Asia?”
Da allora nonostante siano passati più di venti anni, le parole del discorso di Clinton sembrano echeggiare sinistramente premonitrici delle vicissitudini odierne.
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Cina: il boicottaggio dei brand occidentali
Vengono alla luce infatti da varie inchieste internazionali, detenzioni arbitrarie di almeno un milione di persone in campi di rieducazione, appartenenti soprattutto al gruppo etnico degli Uiguri, una minoranza musulmana dello Xinjiang, soggetta a una continua sorveglianza e a sterilizzazione forzata. Aziende come Adidas, Nike, H&M avendo sollevato dubbi in passato circa la presenza di lavori forzati nella regione, subiscono in questi giorni in Cina boicottaggi organizzati e fomentati dai media locali, che non sembrano più tollerare alcuna presa di posizione in ambito di diritti umani né civili, da parte di realtà che rappresentano il mondo occidentale.
La Cina produce il 22% del cotone mondiale, di cui l’84% concentrato nello Xinjiang, è il quarto mercato più grande di riferimento dell’azienda di abbigliamento e accessori H&M, che ha nel paese il secondo più grande bacino economico con 520 negozi, secondi per numero solo a quelli presenti negli Stati Uniti. Una parte della popolazione cinese che è naturalmente influenzata dai media nazionali e non ha libero accesso alle informazioni presenti su internet, si dice intenzionata a modificare le sue scelte di consumo in supporto dei marchi locali, diretti concorrenti di quelli occidentali, nella produzione di abbigliamento sportivo, scarpe e accessori, come ad esempio Anta Sport Products e Li Ning Co’s, che vedono solo nella giornata odierna il prezzo delle loro azioni quotate nel mercato di Hong Kong, salire rispettivamente di oltre 8% e il 10%.
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La risposta dell’Occidente e l’eredità di Trump
Ma nella nuova fase della guerra commerciale, che sembra vertere si spera solo momentaneamente, in una piccola “Guerra Fredda”, non mancano le risposte da parte dell’Occidente. I colossi tecnologici Baidu, Tencent e Alibaba stanno perdendo oggi rispettivamente 8,55% 2,81% e il 3,4%. In una liquidazione generalizzata delle azioni nel settore, messo sotto inchiesta della Securities Exchange Commission americana, l’ente federale preposto alla vigilanza della Borsa valori, che imporrà alle aziende di lasciare il mercato americano, con la sospensione delle loro quotazioni, se non si sottoporranno ai controlli finanziari e legislativi. La SEC è intervenuta per verificare i dubbi, emersi a causa delle pressioni del governo cinese sulle stesse aziende, divenute per gli equilibri di politica interna eccessivamente influenti, con l’accusa di aver monopolizzato il settore dei social media e dei servizi e-commerce, essendosi espanse negli anni precedenti senza controllo.
Il regolamento divenuto legge sotto l’amministrazione Trump nel dicembre dello scorso anno, prevede la rimozione dal mercato azionario americano di quelle aziende cinesi che falliscono nell’ottemperare per almeno tre anni di fila, gli standard di garanzia necessari per essere quotati nella borsa valori USA. Come se l’eredità lasciataci dall’amministrazione Trump in merito all’orientamento della sua politica estera, non fosse stata sufficientemente incisiva, uno di questi requisiti prevede che le aziende quotate non siano sotto il controllo di governi stranieri e che i membri del consiglio direttivo, non siano agli effetti membri del partito comunista cinese.