Il capitalismo mostra sempre più interesse verso l’economia immateriale, nella quale si scambia un valore basato su servizi che fondano le loro radici sulla comunicazione, l’informazione e le relazioni.
In uno spazio quotidiano in cui non vi è più separazione tra gli ambienti che prima era facile dividere traonline e virtuale, offline e reale, dove la somma della dimensione materiale e quella informativa alimenta un continua influenza e accrescimento dell’immateriale e del suo valore, la crescita esponenziale del valore degli asset digitali deve essere riconsiderata come un fenomeno di percezione nuovo, e perciò impossibile da valutare con gli strumenti tradizionali. Il nuovo ambiente è la transizione o meglio la fusione tra due mondi, tra due modi di pensare il reale. Il Bitcoin esempio eclatante di questo fenomeno non può che basare i suoi prezzi sul fenomeno dell’immateriale che diventa reale, fornendo ampie motivazioni per dubitare dei prezzi odierni.
La capitalizzazione del Bitcoin ha raggiunto nei giorni scorsi i mille miliardi di dollari eguagliando, per contestualizzare l’enorme valore accumulato, il valore di tutti gli yen in circolazione, oppure la metà del valore di tutti i dollari. Tuttavia il suo utilizzo è estremamente ridotto così come i suoi scambi sul mercato, rappresentativi sempre in un’ottica esemplificativa dello 0,05% delle transazioni di yen e dello 0,0125% di quelle del dollaro. L’assenza di liquidità è la causa principale della volatilità e del prezzo estremamente alto della criptovaluta.
Nonostante il Bitcoin sia estremante popolare, in realtà gli scambi della criptovaluta sono estremamente ridotti, con la maggioranza degli acquirenti che mantengono in portafoglio i Bitcoin acquistati. Gli investitori più capitalizzati o istituzionali possono facilmente manipolare e sbilanciare l’equilibrio tra domanda e offerta, nonché in modo pressoché diretto, il suo prezzo, stimando una variazione di circa 1% ogni 100 milioni di dollari.
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Il valore delle quotazioni attuali del Bitcoin non è giustificato nemmeno dal suo utilizzo come metodo di pagamento per beni e servizi.
Nel 2020 su un totale di circa 18 milioni e mezzo di Bitcoin più del 75% dei pezzi disponibili non erano in circolazione. Questo significa che gli scambi attuali stanno avvenendo su un’offerta rarefatta che ammonta a un totale di circa 4,2 milioni di pezzi, con una tendenza a conservare la criptovaluta che è in continua crescita. Se la liquidità disponibile del Bitcoin fosse effettivamente vicina alla quantità in circolazione, avremmo sicuramente una volatilità e forse anche un prezzo minore di almeno tre quarti, tra gli 8 mila e i 12 mila dollari. Cifre che si avvicinano ai massimi del periodo tra la fine del 2017 e inizio 2018, quando ci fu il primo significativo incremento di prezzo largamente partecipato.
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Se l’illiquidità è una tendenza preoccupante ancora di più lo è l’impressionante ammontare di emissioni di CO2 che costituiscono l’effetto del meccanismo a sostegno del funzionamento della criptovaluta. Un circolo vizioso nel quale il crescere della complessità degli algoritmi richiede una crescente capacità di calcolo e quindi un maggior consumo energetico.
Per avere un termine di paragone, l’investimento di Tesla sul Bitcoin pari a un miliardo e mezzo di dollari a gennaio di quest’anno è equivalente in termini di inquinamento ambientale alla circolazione di quasi due milioni di auto a benzina in un anno. Un bel paradosso per chi ha fatto dell’ambientalismo e della narrativa sull’energia rinnovabile un riferimento al sostegno della reputazione della sua azienda.
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