L’accordo di Parigi sul clima è stato categorico sul limite delle emissioni di gas serra e tempi per ridurlo. Le aziende però non sembrano prestare fede alle promesse.
Le nazioni si impegnano a ridurre le emissioni inquinanti in tutti i settori per raggiungere il traguardo di circa il 50% entro il 2030. Solo così è possibile contenere il surriscaldamento entro la soglia di sicurezza.
L’obbiettivo è al contempo mantenere l’aumento della temperatura media sotto gli 1,5 gradi centigradi e annullare completamente le emissioni entro il 2050. Diversamente il surriscaldamento avrà effetti negativi su larga scala. Gli impegni presi a Parigi, in vigore dal 2020, sono stati confermati dalla Cop 26, la conferenza dell’Onu sul clima che si è tenuta a Glasgow nel novembre dell’anno scorso.
Questi impegni, tuttavia, hanno bisogno della collaborazione di numerose nazioni e del settore industriale. Lo sforzo deve essere congiunto in quanto diversamente l’obbiettivo rischia di essere posticipato riducendo molto i benefici.
Consumatori e associazioni ambientaliste stanno facendo molto per alimentare le iniziative delle aziende al cambiamento. Sotto l’impulso dell’opinione pubblica, molte di queste hanno annunciato di ridurre, o addirittura di azzerare, la produzione di anidride carbonica. A gennaio 2022, oltre tremila società hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, il doppio rispetto all’anno prima.
L’ecologismo di facciata a fini di marketing è oggi una realtà che si giustifica sull’enorme pressione che le aziende stanno avendo in relaziona al cambiamento dei loro processi produttivi. La consapevolezza del mutamento del sentiment dei consumatori e dei legislatori, ha messo in luce la necessità ma anche l’impossibilità per molti, di conciliare la redditività con l’ecologia. Molte aziende non fanno abbastanza per realizzare gli obiettivi sul clima che si sono date. Nonostante gli annunci solenni gli impegni rimangono sulla carta. Questo è il fenomeno del greenwashing utile per fidelizzare i clienti e beneficiare del prestigio delle loro dichiarazioni.
Tra le 25 imprese più grandi al mondo che hanno annunciato il loro impegno nella riduzione delle emissioni inquinanti sono pochissime quelle che hanno effettivamente mostrato sforzi davvero efficaci. Secondo quanto emerge dallo studio del NewClimate Institute nessuna società ha ottenuto dai ricercatori il punteggio massimo, definito “di alta integrità”. Soltanto la danese Maersk è riuscita a rientrare nel secondo livello, quello chiamato di “ragionevole integrità”, seguita a distanza da Apple, Sony e Vodafone.
NewClimate Institute sostiene la ricerca e l’attuazione di azioni atti a contrastare i cambiamenti climatici in tutto il mondo. L’istituto è monitora e condivide le informazioni sull’evoluzione e l’impatto sul clima di finanza, aziende e meccanismi di mercato.
I piani che dichiarano di neutralizzare o bilanciare le emissioni sono, secondo l’istituto poco attendibili. Questi si basano in gran parte su misure di compensazione senza modificare a monte l’utilizzo delle risorse e le modalità di produzione. Per essere considerate carbon free, molte imprese prevedono di investire importanti risorse sull’eliminazione del diossido di carbonio rilasciato. Le strategie adottate si basano soprattutto sul rimboschimento e sullo sviluppo di sistemi di cattura del carbonio.
Se questo avrà davvero efficacia come soluzione compromesso, rispetto all’impossibilità di conciliare l’attuale economia con l’ecologia lo vedremo nei prossimi anni. Intanto catturare e trasformare la Co2 rilasciata dalle attività industriali è diventato un impegno di cui alcune aziende hanno fatto il loro business principale. Tra queste ci sono pionieri italiani come Fluidance, il primo portale online nato allo scopo di supportare un sistema di tracciamento per valorizzare la C02, catturarla e riutilizzarla. Questo è il presupposto per un vero progetto di economia circolare e di contrasto al cambiamento climatico.
In Italia vengono emesse nell’atmosfera circa 500 milioni di tonnellate di Co2 all’anno tra industrie e privati. In Italia, come nel resto d’Europa, si stanno diffondendo soluzioni per catturarla dai processi di produzione di biogas e di biometano. Esistono sistemi di cattura della Co2 da processi chimici derivanti dall’ammoniaca o dal metano. La società italiana non crede che il metodo più efficiente sia stoccarla nei giacimenti esauriti di petrolio o metano ma sfruttarla nel sistema produttivo.
L’idea è quella di creare un mercato basato sull’economia circolare in cui domanda e offerta si incontrano per dare alle aziende modo di riutilizzare la Co2 catturata. In primo luogo, questa può essere impiegata nell’industria alimentare o in quelle che fanno uso di gas tecnici. In questo modo, diventa possibile facilitarne la commercializzazione e aumentare il valore anche in relazione alla capacità di abbassare l’impatto ambientale dei prodotti che la riutilizzano. È possibile Certificare l’impiego di Co2 proveniente da un processo ecologico esattamente come avviene per l’energia da fonte rinnovabile.
Oltre a questo è possibile valorizzare la CO2 ecologica generando un ulteriore fonte di reddito per i produttori di energia da biomasse e di biometano, fonti rinnovabili importantissime per diversificare l’approvvigionamento di energie rinnovabili.
Se i piani delle grandi aziende risultano lacunosi le aziende come Fluidance ma anche Eni possono contribuire a compensare le emissioni eccessive aiutando l’industria nel processo di transizione.
A essere promosso quasi a pieni voti dai ricercatori è soltanto il gruppo danese Maersk, attivo nel trasporto marittimo e nella cantieristica navale. Il mese scorso la compagnia ha anticipato il raggiungimento del suo traguardo di neutralità ecologica al 2040. L’azienda ha promesso di tagliare del 70% la produzione di gas serra dei suoi scali marittimi attraverso la costruzione di 8 navi a impatto zero.
Tra le grandi aziende bocciata anche Amazon. Il colosso dell’e-commerce ha scommesso che riuscirà a utilizzare entro soli 3 anni il 100% di energie rinnovabili. L’economia di Amazon si basa essenzialmente sui trasporti per le consegne. Amazon infatti, distribuisce qualcosa come un miliardo di pacchi ogni anno soltanto negli Stati Uniti, mentre Amazon Web Services consuma un enorme ammontare di elettricità per alimentare i server del cloud computing che stanno alla base del servizio. Alla vigilia di una serie di scioperi in Amazon per il cambiamento climatico, Bezos ha firmato ad aprile il climate pledge. L’impegno programmatico prevede l’utilizzo del 100% di energia rinnovabile entro il 2030, in servizio una flotta di 100 mila veicoli elettrici per le consegne, nonché la neutralità ecologica entro il 2040.
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